mercoledì 7 novembre 2007

Il mio angolo di serendipity

Serendipity...

Già il suono di questa parola evoca un mondo fiabesco e irreale fatto di fantasia e di prodigi.
Serendipity.
Non sembra la parola magica di una fata buona?

E il suo significato è altrettanto affascinante.
Serendipity è la fortuna di trovare una cosa bella e inaspettata mentre se ne sta cercando un'altra.
E' il Fato che premia chi sa aprirsi alle cose nuove, chi sa guardare oltre le apparenze per scoprire che troppo spesso neanche noi sappiamo bene cosa cerchiamo.

Questo è il mio angolo di serendipity, e qui raccoglierò i pensieri che mi aiutano a capire meglio cosa voglio e ad esplorare quello che è forse il mio lato migliore.

Auguro a tutti voi di trovare tanta serendipity sulla vostra strada. :-)

Manuela

The dark side of the dream

ho la fortuna di conoscere piuttosto bene New York, una città che amo molto, con tutte le sue luci e con tutte le sue ombre.
"People help the People" di Cherry Ghost mi ha ispirato questa breve riflessione sul lato scuro del sogno americano.

E' una notte come tante a Manhattan.
Echi di sirene ululano rabbiose su a nord verso Harlem, rari taxi sferragliano sull'asfalto lanciando muggiti di inutili clacson. I neon dei bar sbraitano “Open 24 Hours”, e poi più sommessamente invitano “venite, entrate, trascinate qui dentro la vostra disperazione”. Un ubriaco vomita sul marciapiede, sputa vino e bestemmie, succhi gastrici e rabbia. Una puttana barcolla su patetiche zeppe di plastica, lo sguardo vuoto e gli occhi ricolmi della stanchezza di quella notte e di quella vita.


Tra poco sarà l'alba, pensa l'uomo, e rivede un'alba di tanti anni prima, e risente l'odore di gasolio e di speranza di quell'autobus che secoli fa l'ha strappato all'incubo di Tuscaloosa, Alabama per consegnarlo al sogno di New York, NY.
Lì i neri li trattano come i bianchi, gli avevano detto. E lui ci aveva creduto.


Il cielo si tinge di rosa e l'alba si apre piano a un nuovo giorno. Il ventre sterile della metropolitana partorisce greggi di esseri umani che si avviano al lavoro, mandrie di tutte le razze, ingorghi di sfrenate ambizioni e di ataviche rassegnazioni .
E' facile trovare un lavoro a New York, gli avevano detto. E lui ci aveva creduto.


Il sole è alto nel cielo adesso. Rumori di traffico, e calpestii di gente cieca e sorda che ha un posto dove andare e qualcuno che li aspetta.
E' aperta New York, è generosa New York, gli avevano detto. E lui ci aveva creduto.


Tic toc, tic toc. Un'eco di tacchi a spillo, e lui sorride appena mentre negli occhi chiusi gli passano bagliori di donne profumate e morbide. Ripensa a Mary, al suo sorriso bianco e alla sua pelle di cioccolata.
Ti amo, gli aveva detto Mary. E lui le aveva creduto.


Poco più in là un accattone recita la sua litania: “help me to survive, help me to survive.”
Le conosce anche lui quelle parole, le conosce bene, le ha pronunciate milioni di volte, ma adesso non dovrà ripeterle più. Mai più ormai, purtroppo o finalmente.

Il suo corpo è scosso da un tremito, anche il sole l'ha abbandonato, non ne sente più il calore, non ne vede più la luce.
Solo freddo e buio. E poi solo buio.
Si muore per la strada a New York, soli come cani, gli avevano detto. Ma lui non ci aveva creduto.


New York,
la forza primaria del caos apparente
che si chiama vita.
O morte, talvolta.

Una piccola figlia del vento

l'innocenza dei bambini... sempre e comunque.

La vedo venirmi incontro.
Avanza veloce e scomposta, e fa tenerezza vederla camminare in quello strano passo di danza, i piedi attenti a non calpestare la gonna che sfiora il selciato e le mani che volano su e giù, su a sistemare lo scollo della maglietta troppo grande e giù a raccogliere le pieghe della sottana per sollevarne l'orlo. Abiti indossati troppe volte da troppa gente, colori logori e sbiaditi, macchie di sporco e di stanchezza. E braccia esili come fuscelli, testa affondata nelle spalle, piedi minuti in scarpe troppo grandi.
Un piccolo e patetico spaventapasseri. Una maschera di un mesto carnevale.


Un sorriso largo che mostra i denti bianchi, e la mano piccola e bruna celata da un giornale che cerca la mia borsa.
Le afferro la mano che già stringe il portafoglio, ed è così morbida e calda quella mano che mi sembra di intrappolare un passerotto.
“Lasciami signora, ti prego. Scusa signora, sono piccola” piagnucola mentre cerca di liberarsi dalla mia stretta.
La guardo negli occhi, due laghi neri avvezzi a straripare in lacrime di convenienza che velano senza nascondere la sfida, la rabbia, la scaltrezza; uno sguardo che contraddice le suppliche, che smentisce la paura, che sconfessa il pentimento. Una sfrontatezza ostile che nega l'infanzia.


Allento un poco la stretta e lei fugge via, le trecce nere che disegnano cerchi veloci nell'aria.
Pochi metri di corsa e si volta a guardarmi; adesso ha l'infanzia negli occhi, e ride felice di avermi beffata.
Non sa che è a lei che hanno rubato di più.