mercoledì 7 novembre 2007

Il mio angolo di serendipity

Serendipity...

Già il suono di questa parola evoca un mondo fiabesco e irreale fatto di fantasia e di prodigi.
Serendipity.
Non sembra la parola magica di una fata buona?

E il suo significato è altrettanto affascinante.
Serendipity è la fortuna di trovare una cosa bella e inaspettata mentre se ne sta cercando un'altra.
E' il Fato che premia chi sa aprirsi alle cose nuove, chi sa guardare oltre le apparenze per scoprire che troppo spesso neanche noi sappiamo bene cosa cerchiamo.

Questo è il mio angolo di serendipity, e qui raccoglierò i pensieri che mi aiutano a capire meglio cosa voglio e ad esplorare quello che è forse il mio lato migliore.

Auguro a tutti voi di trovare tanta serendipity sulla vostra strada. :-)

Manuela

The dark side of the dream

ho la fortuna di conoscere piuttosto bene New York, una città che amo molto, con tutte le sue luci e con tutte le sue ombre.
"People help the People" di Cherry Ghost mi ha ispirato questa breve riflessione sul lato scuro del sogno americano.

E' una notte come tante a Manhattan.
Echi di sirene ululano rabbiose su a nord verso Harlem, rari taxi sferragliano sull'asfalto lanciando muggiti di inutili clacson. I neon dei bar sbraitano “Open 24 Hours”, e poi più sommessamente invitano “venite, entrate, trascinate qui dentro la vostra disperazione”. Un ubriaco vomita sul marciapiede, sputa vino e bestemmie, succhi gastrici e rabbia. Una puttana barcolla su patetiche zeppe di plastica, lo sguardo vuoto e gli occhi ricolmi della stanchezza di quella notte e di quella vita.


Tra poco sarà l'alba, pensa l'uomo, e rivede un'alba di tanti anni prima, e risente l'odore di gasolio e di speranza di quell'autobus che secoli fa l'ha strappato all'incubo di Tuscaloosa, Alabama per consegnarlo al sogno di New York, NY.
Lì i neri li trattano come i bianchi, gli avevano detto. E lui ci aveva creduto.


Il cielo si tinge di rosa e l'alba si apre piano a un nuovo giorno. Il ventre sterile della metropolitana partorisce greggi di esseri umani che si avviano al lavoro, mandrie di tutte le razze, ingorghi di sfrenate ambizioni e di ataviche rassegnazioni .
E' facile trovare un lavoro a New York, gli avevano detto. E lui ci aveva creduto.


Il sole è alto nel cielo adesso. Rumori di traffico, e calpestii di gente cieca e sorda che ha un posto dove andare e qualcuno che li aspetta.
E' aperta New York, è generosa New York, gli avevano detto. E lui ci aveva creduto.


Tic toc, tic toc. Un'eco di tacchi a spillo, e lui sorride appena mentre negli occhi chiusi gli passano bagliori di donne profumate e morbide. Ripensa a Mary, al suo sorriso bianco e alla sua pelle di cioccolata.
Ti amo, gli aveva detto Mary. E lui le aveva creduto.


Poco più in là un accattone recita la sua litania: “help me to survive, help me to survive.”
Le conosce anche lui quelle parole, le conosce bene, le ha pronunciate milioni di volte, ma adesso non dovrà ripeterle più. Mai più ormai, purtroppo o finalmente.

Il suo corpo è scosso da un tremito, anche il sole l'ha abbandonato, non ne sente più il calore, non ne vede più la luce.
Solo freddo e buio. E poi solo buio.
Si muore per la strada a New York, soli come cani, gli avevano detto. Ma lui non ci aveva creduto.


New York,
la forza primaria del caos apparente
che si chiama vita.
O morte, talvolta.

Una piccola figlia del vento

l'innocenza dei bambini... sempre e comunque.

La vedo venirmi incontro.
Avanza veloce e scomposta, e fa tenerezza vederla camminare in quello strano passo di danza, i piedi attenti a non calpestare la gonna che sfiora il selciato e le mani che volano su e giù, su a sistemare lo scollo della maglietta troppo grande e giù a raccogliere le pieghe della sottana per sollevarne l'orlo. Abiti indossati troppe volte da troppa gente, colori logori e sbiaditi, macchie di sporco e di stanchezza. E braccia esili come fuscelli, testa affondata nelle spalle, piedi minuti in scarpe troppo grandi.
Un piccolo e patetico spaventapasseri. Una maschera di un mesto carnevale.


Un sorriso largo che mostra i denti bianchi, e la mano piccola e bruna celata da un giornale che cerca la mia borsa.
Le afferro la mano che già stringe il portafoglio, ed è così morbida e calda quella mano che mi sembra di intrappolare un passerotto.
“Lasciami signora, ti prego. Scusa signora, sono piccola” piagnucola mentre cerca di liberarsi dalla mia stretta.
La guardo negli occhi, due laghi neri avvezzi a straripare in lacrime di convenienza che velano senza nascondere la sfida, la rabbia, la scaltrezza; uno sguardo che contraddice le suppliche, che smentisce la paura, che sconfessa il pentimento. Una sfrontatezza ostile che nega l'infanzia.


Allento un poco la stretta e lei fugge via, le trecce nere che disegnano cerchi veloci nell'aria.
Pochi metri di corsa e si volta a guardarmi; adesso ha l'infanzia negli occhi, e ride felice di avermi beffata.
Non sa che è a lei che hanno rubato di più.

Tutto ha un prezzo

...troppo spesso restiamo inerti a guardare la nostra vita che ci scorre davanti come attraverso il finestrino di un treno, troppo pigri o troppo codardi o troppo inquadrati anche solo per tentare di spezzarla, quella lastra di vetro...
come se questa non fosse l'unica vita che abbiamo da vivere.

“Treno locale per Firenze delle ore 6:18 in partenza dal binario due”.
La voce dell'altoparlante echeggiò, meccanica e indifferente, nel silenzio della stazione addormentata. Non vuota, solo addormentata. Perché gente ce n'era, uomini e donne, tutti con gli occhi gonfi di sonno e le bocche mute.
“Potrei dirlo io a te che il locale delle 6:18 è in partenza dal binario due” pensò Fausto.
Erano anni che lui e il locale delle 6:18 partivano insieme dal binario due, dal lunedì al venerdì, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.
Quel giovedì in cui era rimasto a casa per la nascita di suo figlio il capotreno si era preoccupato, aveva pensato che gli fosse successo qualcosa di grave.
Si, lui il lavoro lo prendeva sul serio, e poi i soldi gli ci volevano tutti, quelli dello stipendio e quelli degli straordinari. Ora più che mai.


Le gambe mosse dall'abitudine guidarono i suoi passi fino al solito posto. Terza carrozza, primo scompartimento lato finestrino.
C'erano già Giulio e Carlo, suoi eterni compagni di viaggio.
Gli piaceva quel posto perché Carlo dormicchiava per tutto il tragitto e Giulio faceva in silenzio le parole crociate.
Non aveva voglia di parlare lui. E di che poi? Di calcio, come Marco e Gino? O di donne, come Luca e Sandro, che erano ancora dei ragazzi e che anche a quell'ora della prima alba si raccontavano storie sboccate e probabilmente mai vissute che li preparavano a sopportare la lunga giornata al cantiere, su e giù per le impalcature con l'agilità di un acrobata ma senza la stessa danzante allegria.


Ecco, il treno stava partendo.
Per tanti anni quel viaggio era stato per Fausto l'unico modo di vedere la vita.
Di vederla attraverso il vetro di un finestrino, non di viverla. Per viverla bisogna dedicarle un po di tempo alla vita, e lui di tempo non ne aveva. Si svegliava alle 5 di mattina e tornava a casa dopo le 7 di sera. Giusto il tempo di mangiare qualcosa e poi via a letto, per ricominciare tutto daccapo il giorno dopo.
E così guardava fuori dal finestrino e vedeva i colori del paesaggio che mutavano, vedeva le luci spegnersi al mattino e riaccendersi alla sera. Vedeva gli altri che facevano colazione al bar, vedeva i figli degli altri che andavano a scuola, vedeva le donne degli altri che si muovevano per le strade. Vedeva la vita degli altri insomma.
Fino a quando un giorno aveva incontrato Sara.


Era giovane Sara. Non era bella, ma quando ti guardava ti faceva sentire l'uomo più importante della terra.
Ed era proprio così che Fausto si sentiva con lei, importante. E felice. E vivo, finalmente.
Nelle ore rubate che passava con lei, Sara sapeva ricompensarlo di ogni sacrificio, sapeva rendergli leggere le menzogne recitate a sua moglie e il tempo negato ai suoi figli.
Ce l'aveva fatta. L'aveva scardinato quel maledetto finestrino. Non era più un inerte spettatore, era il protagonista, e il vincitore, di quel gioco bellissimo e crudele che è la vita.
A questo pensava Fausto, senza più vedere la periferia di Firenze che gli scorreva veloce davanti agli occhi.
“Ho la mia vita da vivere adesso” pensò. E sorrise tra se.


Non pensò Fausto che quel ruolo di protagonista lui se lo stava comprando giorno dopo giorno.
Le richieste di Sara si facevano sempre più frequenti: prima qualche vestito, poi un gioiello, e adesso quell'appartamentino in affitto che si sarebbe mangiato tutti i soldi dei suoi straordinari.
No, a quello Fausto non ci pensava.
E forse, anche se ci avesse pensato, non sarebbe cambiato niente e lui avrebbe continuato a sorridere. Perché tutto ha un prezzo nella vita, Fausto lo sapeva bene. Anche la vita stessa.

Il mosaico del mondo

più una riflessione su un tema a me caro che un vero racconto...

E' un pomeriggio ozioso di una giornata di Maggio.
Questa mattina sono stata al mare, e la prima nuotata della stagione si riprende adesso tutta l'energia che mi ha regalato mentre sguazzavo nell'acqua ancora gelida.
Si è alzata una brezza leggera e io, sdraiata sotto il pergolato di bignonia, sono grata al fogliame ancora giovane che lascia filtrare ampie chiazze di sole.
Devo essermi assopita perché il libro che stavo leggendo mi è scivolate sulle ginocchia.
Lo riprendo e lo apro nel punto in cui, approfittando del mio abbandono, ha scelto di schiudersi.
Una frase cattura il mio sguardo “...sospeso tra l'oblio del sogno e la consapevolezza della lucidità...”
E' strano. Leggendo quelle parole mi rendo conto che è così che mi sento in questo luogo pieno di contrasti, in questo angolo della Maremma che pare non riuscire a decidere se essere terra o se essere mare.


I boschi sembrano racchiudere mille segreti a cui neanche il sole ha accesso.
Addentrarsi nella vegetazione è impossibile, la macchia mediterranea blocca i passaggi lasciati liberi dagli alberi di alto fusto.
E si può soltanto immaginare l'ombra umida che avvolge quei labirinti misteriosi, il verde trinato delle foglie, la rugosità centenaria dei tronchi, i sentieri coperti di aghi di pino, le orme lasciate nel terriccio scuro dagli zoccoli dei cinghiali, gli aculei persi dalle spinose nei loro passaggi notturni.
Si respirano i profumi delle erbe selvatiche e gli odori acri degli animali.
Gli alberi secolari, dall'alto della loro saggezza, guardano con indulgenza alla precarietà delle nostre esistenze e all'inutilità dei nostri affanni.
Il silenzio, irrazionalmente amplificato dai canti degli uccelli, dissolve la realtà e rende immobile anche il tempo.


Il bosco scende giù dalla collina fino a svanire come d'un tratto appena raggiunge la costa.
Il terriccio si mischia alla sabbia arida solo per pochi metri. Il bosco è rimasto bosco, scuro e scontroso, fino alla fine. Non si è lasciato addomesticare nel suo cammino dall'ombra verso la luce.


La spiaggia è bianca e abbagliante e aperta, completamente indifferente alla rigogliosità impenetrabile del bosco che sembra minacciarla così da vicino. Lei sa che lui non pretenderà di cambiarla, come lei non pretenderà di cambiare lui.
Il mare l'accarezza dolcemente, come un amante che non chiede niente, e lui stesso la sfiora e si ritrae senza lasciarsi possedere completamente.
Però addolcisce il suo colore quando la incontra, diventa trasparente quando la bacia, così da lasciarla esistere, senza sopraffarla, anche in quel loro lento ed eterno amplesso.
Poi, più in là, riprende il suo colore, che è poi il colore del cielo con il quale si fonde senza unirsi all'orizzonte.


E' nelle diversità dei suoi elementi che sta la magia della Natura, nei milioni di arcani contrasti che si integrano come minuscole tessere per completare il mosaico del mondo.
L'oasi non inaridisce nel deserto, il fiore non simula la forza della quercia, il lago non reclama la velocità delle cascate.
Soltanto l'uomo si lascia condizionare da quanto lo circonda. Per piacere di più e per piacersi di meno.

I maschi

amo gli uomini così forti da non avere paura di mostrare le loro fragilità e le loro insicurezze. quegli uomini che si accettano, e che si mostrano, per quello che sono...
alcune considerazioni metaforiche sul cosiddetto"sesso forte".

Il bufalo sta ruminando in una pozza d'acqua melmosa, le enormi corna ricurve che spuntano come ali nefaste da quella montagna di carne e di muscoli che è il suo corpo.
Si è staccato dal branco, ma non ha mutato le abitudini che scandiscono il ritmo pigro della sua vita. Trascorre la giornata in un ozio sonnolento e inizia a vivere solo quando scende la sera.
Nel suo mondo limitato e materiale, sono i muscoli e la prestanza fisica a segnare il destino di ognuno, a selezionare i vincitori dagli sconfitti, a benedire i forti, a condannare i deboli.
La sua ottusità di microcefalo erbivoro gli risparmia i problemi esistenziali. Vive il presente e non si cura del futuro.
Sarà colto di sorpresa dalla maturità che, afflosciandogli i muscoli, gli annienterà la vita. La maturità fisica naturalmente, quella intellettuale non è alla sua portata.
La sua femmina lo venera come un virile semidio e lui, gratificato fin nella più profonda superficialità del suo ego, le concede il suo vigore di maschio ma non il suo rispetto. Lei gli sarà grata per ogni sguardo e per ogni umiliazione, vivrà all'ombra delle sue corna e camperà infelice e contenta.
Equa è la legge che decreta che in natura ogni animale abbia la femmina che si merita.

Non lontano dal bufalo, altri animali si muovono furtivamente nella savana. Un piccolo branco di sette magnifici esemplari di leone. Maschi anche loro, come il bufalo, ma di tutt'altra levatura. Fieri, maestosi, eroici, dominatori. Uniscono l'astuzia alla forza, la strategia al'istinto, l'agilità alla robustezza.
E adesso tutte quelle doti verranno messe fatalmente alla prova.
Le femmine sono state poste al riparo, oggi saranno solo delle madri per i loro cuccioli.
Quello sarà un combattimento tra maschi che porterà onore o morte. La posta in palio è alta, ben più alta della mezza tonnellata di carne che sfamerà il branco per una settimana. Perché quella non sarà solo una lotta contro il bufalo. Sarà anche e soprattutto una sfida tra di loro e con se stessi, per affermare la supremazia sul branco e la loro virilità di giovani maschi.

I leoni continuano ad avvicinarsi alla preda e con una strategia vecchia di milioni di anni si preparano all'accerchiamento che precederà l'attacco finale.
Ecco, sono a circa trenta metri dal bestione.
Il primo a scattare sarà un eroe, comunque vada. Lui si lancia in una corsa folle che sembra tenerlo sospeso nell'aria e poi, con un ultimo balzo, si avventa sul bufalo e lo azzanna al collo, è così che si fa.
Il sangue caldo gli riempie la bocca, gli occhi, il naso. Li conosce bene il sapore dolciastro e l'odore acre del sangue.
Intorno a lui il caldo soffocante della savana, dentro di lui il freddo agghiacciante della paura.
Si, della paura. Una paura che ogni volta si ripresenta, attanagliandogli il cuore e la mente e le viscere. Una paura alla quale lui non può permettersi di soggiacere perché nel nome della sua specie "Panthera leo, leone" è scritto il suo destino, un destino che lo vuole forte e coraggioso ed eroico.
E lui, il re della foresta, deve dissimulare la paura con l'eroismo, la pietà con la crudeltà, l'umiltà con l'orgoglio, il dubbio con la certezza, l'emotività con la prepotenza, la fragilità con la forza.
La sfida più grande, la vittoria più esaltante sarebbe quella di riuscire a sottrarsi a quegli stereotipi per essere soltanto se stesso. Quello sarebbe vero coraggio!


Il maschio del leone non ce la può fare, la legge primordiale della savana non glielo permette.
Ma il maschio dell'Homo Sapiens Sapiens può riuscirci. Può riuscire a sconfiggere il mito che lo marchia come “il sesso forte” per essere semplicemente quel bellissimo esemplare che è. Un uomo.

Luce e Ombra

credo che ognuno di noi sia molto di più di quello che appare...
credo che in ognuno di noi ci sia una parte, talvolta la nostra parte più bella, che non mostriamo agli altri e che spesso non osiamo rivelare neanche a noi stessi.


Era stata una giornata piena di sole e di caldo e di gente e di rumori.
Ma adesso era sceso il crepuscolo, e il parco stava lentamente abbandonandosi, stremato, alla statica tranquillità che precede il silenzio e la frescura della notte.
Non più luce accecante, grida di bambini, canti di uccelli, frinire di cicale. Solo ombre, rumori ovattati, brezza sottile e leggeri fruscii di fronde.


Le due donne sedevano ai lati della stessa panchina ma sembravano completamente inconsapevoli della loro vicinanza, come se le loro palesi differenze le nascondessero l'una alla vista dell'altra.

Flavia, composta e armoniosa, con i capelli castani raccolti in uno chignon e il busto bene eretto nel vestito grigio che sottolineava quella austera femminilità di cui - secoli prima, pareva - era andata tanto orgogliosa.
Pensava alla cena del giorno dopo, Luca aveva invitato i suoi clienti più importanti e tutto doveva essere perfetto.
Le sembrava che tutta la sua vita fosse trascorsa all'ombra opprimente della perfezione: moglie perfetta, madre perfetta, donna perfetta.
Per anni aveva pensato che anche la sua vita fosse perfetta.
Poi un giorno si era chiesta: “Ma io sono felice?” e in quel preciso istante aveva cessato di esserlo.
Voleva tornare indietro nel tempo. Riscrivere la propria vita. Commettere degli errori diversi. Cantare e ballare e sognare e ridere e piangere. Voleva vivere, vivere davvero.


Lara, solare e vibrante, in totale contrapposizione con la spiritualità vespertina che aleggiava nell'aria. Rossa la sua minigonna, gialla la sua maglietta scollata, fulvi i suoi capelli, verdi i suoi occhi. Un tripudio di colori, e di vita, e di riccioli scomposti.
Scomposti anche i suoi pensieri. Non faceva mai programmi, Lara. Sapeva che la vita si prende gioco dei programmi, li manipola e li rigira, e se anche riesci ad arrivare al traguardo, alla fine senti solo vuoto e delusione e amarezza.
“La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare”. Chi l'aveva detto? Schopenhauer, le sembrava.
Così adesso si godeva quell'attimo di quiete, assaporandolo lentamente. Sapeva che sarebbe durato così poco, giusto il tempo di riprendere fiato prima che nuove sfide la portassero di nuovo a confrontarsi con la vita che si era scelta. Una vita senza nessuna certezza, tutta un'alternanza di esaltazione e di sconforto.
E lei avvertiva sempre più spesso il bisogno di ammainare le vele e di abbandonarsi a qualcuno che la prendesse per mano e le mostrasse la via ad un po' di riposante serenità.


Le due donne erano immobili, come in un quadro.
Ma solo un pittore particolarmente sensibile ai contrasti della natura umana avrebbe davvero pensato di dipingerlo, quel quadro. Le due donne erano così diverse. Eppure l'effetto che scaturiva da quella loro vicinanza era di una fusione totalmente armonica, come se le loro differenze contribuissero a creare una completezza che, separandole, sarebbe venuta a mancare.
E forse quel pittore sarebbe anche riuscito a guardare dentro alle loro anime, ed avrebbe compreso che, nonostante i contrasti evidenti, le due donne erano in realtà una sola, ognuna lo sdoppiamento dell'altra.


Ma loro non capirono che lì, su quella panchina, in quel momento sospeso nel tempo, il Fato stava concedendo loro la possibilità di fondere Luce e Ombra. Di dare voce al lato oscuro della loro coscienza, di guardarlo in faccia, e di liberare l'altra metà della loro esistenza.
No, loro questo non lo capirono, e continuarono a non vedersi.


Poi, d'un tratto sembrò, scese la notte.

E Flavia stancamente si alzò e si avviò verso casa.

India tra realtà e fantasia

nel marzo del 2006 ho fatto un breve viaggio in India.
è stata un'esperienza che mi ha fatto riflettere su molte cose, che ha mosso tanti pensieri che conservo dentro di me perché non sono né pronta né qualificata per parlarne.
questo è un pezzo che ho scritto soltanto per "fermare" un frammento di quel viaggio...


Ho sempre desiderato visitare l'India.
Se credessi nella reincarnazione, direi che in una vita precedente devo essere stata una Maharani o, più probabilmente, un povero paria.
E adesso ci sono, in India. Nel Rajastan, perché viaggio da sola e non me la sono sentita di avventurarmi nelle regioni più devastate dalla fame e dalle malattie.
Sono uscita presto dall'albergo stamattina, la comodità della mia camera mi fa sentire in colpa, come un guardone che, protetto dal benessere che la sua agiatezza di occidentale gli consente, spia delle miserie che non ha nessun diritto di vedere. Perché non gli appartengono e perché alla fine ripartirà senza avere fatto niente per alleviarle.


Mentre cammino senza meta mi sento annegare in una malinconia amara, fatta di pena e di impotenza e di rabbia.
Avanzo per una strada assolata, costeggiata da un marciapiede che di notte offre un duro giaciglio ai senzatetto. Non lontano intravedo uno dei tanti slums, le bidonville dell'India, dove la gente vive e soprattutto muore senza acqua, senza cibo, senza Dio.
La malinconia si muta in un'angoscia struggente. Devo scuotermi, devo staccarmi almeno per oggi dalla sofferenza di questo paese che ogni giorno di più sta diventando anche la mia.


E' così che arrivo all'Amber Fort, un forte del colore del miele che racchiude all'interno delle sue mura padiglioni e palazzi degni di Sheherazade.
Un altro dei tanti contrasti dell'India.
E l'angoscia cede il posto ad altri sentimenti, così concreti e così familiari per noi occidentali da diventare rassicuranti. L'insofferenza per i turisti vacanzieri che, senza avere neanche sfiorato la realtà di questo paese, torneranno a casa con mille cose da raccontare. Lo sdegno per il patetico circo degli elefanti bardati a festa per appagare la futile smania delle foto-ricordo. L'avversione per la trasandatezza e per la chiassosità delle turiste, così dozzinali al confronto con la grazia e con la femminilità delle donne in sari.


Girovagando per l'Amber Fort resto come fulminata da una grande stanza senza finestre, con migliaia di pietre dure e una miriade di minuscoli specchi incastonati nelle pareti e nelle volte del soffitto.
Un vecchio mi si avvicina e in un inglese dolce e traballante inizia a cantilenare una storia più romantica di una leggenda:
“Questa è la Sala degli Specchi, la Sheesh Mahal.
Il Raja Jai Singh la costruì per la sua Maharani, per donarle tutte le stelle del cielo.
Bastava accendere delle candele e le fiammelle si riflettevano negli specchi creando un nero cielo stellato a qualsiasi ora del giorno.”


Probabilmente, anche se il vecchio non lo dice, l'amore del Raja fu precario come le fiammelle delle sue candele e migrò presto verso un'altra favorita.
Ma mi piace pensare che, negli anni o nei mesi o negli attimi in cui è durato, quell'amore abbia inondato la vita della Maharani. Che l'abbia fatta sentire preziosa e adorata e protetta. Che l'abbia avvolta con quella tenerezza a cui troppe donne dell'occidente hanno abdicato in favore dell'emancipazione.


E d'un tratto mi assale il bisogno, irragionevole e assoluto, di credere di essere stata davvero, in una mia vita precedente, proprio quella maharani. E di avere trovato, sotto quelle stelle accese solo per me, un conforto alle fragilità e alle insicurezze che in questa vita che mi vuole forte e determinata non avrò forse mai il coraggio di confessare neanche a me stessa.
Lo so che presto mi ritroverò di nuovo a tormentarmi per questo paese martoriato.
Ma in questo momento in cui una fantasia del passato porta alla luce una realtà del presente, la pena che provo è soprattutto per me stessa.



The fashion victim

ho lavorato nel mondo della moda e sono riuscita a sopravviverci, e talvolta anche a godermelo, grazie al sense of humour di cui Madre Natura mi ha, bontà sua, generosamente dotata...


Sono a Milano, la capitale della moda.
Quattro volte all'anno questa città evoluta e altezzosa si piega all'assalto di una folla eterogenea e cosmopolita di cavallette, vestite come i più raffinati manichini delle vetrine del centro e snob come i più zotici nouveaux riches dell'hinterland.


Come al solito io sono qui per lavoro, e non mi sento affatto parte di questo zoo. Sono solo un'osservatrice distaccata e, grazie al cielo, ironica. Perché è solo con l'ironia che si può riuscire a sopravvivere in questo mondo di uomini e donne devoti a un solo credo, al dogma che inesorabile decreta: “l'importante è l'apparire, non l'essere”.

La mia agenda dice che dovrò assistere a varie sfilate.
Le amiche mi invidiano; vedrò Giorgio, la Naomi, la Jessica, e parecchi vip. E io invidio le amiche che, beate loro, potranno andare in ufficio senza trucco e con il vestito dell'anno scorso.
Oggi è uno di quei giorni in cui avrei voglia di nascondermi al mondo, e invece dovrò APPARIRE in forma smagliante.
Comunque non ho scelta, quindi forza... trucco, gonna, top, giacca, tacchi alti, borsa capiente per contenere la mia mega-agenda, gli inviti alle sfilate, i press release e i “cotillons” che raccoglierò durante la giornata.
Sono pronta.
Mi guardo allo specchio. Ce l'ho fatta. APPAIO al mio meglio. E a nessuno importerà una mazza del fatto che in realtà io SONO al mio peggio.


Fuori dell'albergo c'è già una discreta coda per i taxi.
Mi metto in fila insieme agli altri disgraziati come me.
I fortunati invece, quelli che contano o che credono di contare in questo mondo dorato, hanno delle macchine scure e lunghissime che li aspettano.
Gli autisti parlottano tra di loro, in trepida attesa dei vip che in questi giorni avranno l'onore di scarrozzare da un capo all'altro della città. Illuminati dal bagliore delle loro vetture tirate a lucido e inondati dalla gloria riflessa del loro importante “carico”, guardano con commiserazione a noi, misera gente comune. Come a dire “Eh eh, ne farete di code oggi!”
Li incenerisco con lo sguardo, come faccio ogni volta che qualcuno mi ricorda una triste verità.
Mentre aspetto, guardo la gente che condivide il mio gramo destino.
E penso che a guardarli (a guardarci) non si direbbe mai che siano (che siamo) dei disgraziati.
Tutti “beautiful people”, tutti griffati da capo a piedi, tutti occupatissimi a non perdere neanche un attimo del loro preziosissimo tempo. C'è chi parla al telefonino in lingue incomprensibili (ma che ora sarà adesso in Giappone, mi chiedo), chi scrive su Filofax rilegati in pelle e gonfi di biglietti da visita, chi mette in ordine gli inviti per le sfilate di oggi, chi controlla la posta sull'ultimo modello di Blackberry.
Solo io sono totalmente nullafacente. Solo io mi accorgo che il cielo è di un azzurro infinito e che oggi è una bellissima giornata di fine Settembre.


Sono ancora in coda quando arriva una Multipla. Per questi cultori dell'estetica è come un cazzotto nello stomaco. La guardano come si guarderebbe un grasso bacherozzo e si rifiutano di salirci.
La Multipla non piace neanche a me per la verità, ma devo solo starci venti minuti su quel taxi, mica devo comprarmelo.
Quando apro lo sportello per salire a bordo mi guardano con lo stesso disprezzo con cui hanno accolto l'arrivo della seppur vincente ciambella-senza-buco della Fiat. Però io parto per la sfilata e loro restano lì, ad aspettare una Mercedes.
Sono pronta per la giornata che mi aspetta? No, assolutamente no. Ma APPARIRO' come se lo fossi e quindi LO SARO'!


Il taxi vola attraverso le strade di Milano con una agilità insospettabile per una carrozzeria formato chioccia come quella della Multipla.
Forse è solo la sua legittima rivalsa contro tutto il bello stucchevole e statico che invade la città in questo periodo.


A partire dai mega-cartelloni pubblicitari che tappezzano le strade per inneggiare ai grandi stilisti e all'unica dea di questo mondo pagano eppure monoteista: L'APPARENZA.

Maschi, con corpi che sembrano scolpiti nel marmo bruno, appesi a ogni angolo delle vie e delle piazze per convincere gli uomini che, con quella giacca e con quella camicia sbottonata fino alla vita, diventeranno belli come loro.
Parlo di marmo sia per la indiscutibile plasticità dei loro corpi che per il fatto che per me, parere personalissimo e assolutamente discutibile, quei bambolotti hanno lo stesso sex appeal di una statua. Cioè zero.
Sarò strana, ma a me piacciono gli uomini fisicamente imperfetti, quelli che sanno che c'è tutto un mondo al di là del loro microcosmo e che magari ti agganciano con lo sguardo per invitarti a scoprirlo con loro, non questi manichini per i quali l'unica cosa che vale la pena di agganciare con lo sguardo è uno specchio, preferibilmente a figura intera, che confermi che sono loro i più belli del reame.


Donne, talvolta poco più che bambine, che ti guardano dall'alto con i loro occhi bellissimi nei volti perfettamente truccati, e che esibiscono i chiari segni della loro anoressia con un orgoglio molto più doloroso del disagio di molte (troppe) ragazze per il loro vero o presunto sovrappeso. Pubblicizzano vestiti quantomeno improbabili per la donna “normale” che non può passare da una festa all'altra perché deve anche andare in ufficio, che non viaggia in limousine e che quindi ogni tanto deve anche correre per acchiappare un autobus al volo, che va spesso in pizzeria e non sempre in ristoranti tre stelle Michelin.

Sembra davvero che l'umanità abbia un unico grande affanno, quello di APPARIRE: di apparire belli, di apparire eleganti, di apparire ricchi, di apparire felici.

Persa in queste considerazioni non mi accorgo che siamo arrivati a destinazione.
Scendo con mestizia dalla Multipla, un po' perché mi sentivo proprio a mio agio avvolta nella sua rassicurante mediocrità e, soprattutto, perché adesso comincia davvero la mia giornata e io devo tuffarmi nella mischia.
E la mischia, in questo mondo apparentemente distaccato e superiore, non ha proprio niente da invidiare a quella degli stadi. Qui, in questi palazzi patrizi con stucchi, affreschi e lampadari di Murano, alla rissa fisica si aggiunge pure lo stress psicologico, la parte più dura per me.
Ma ce la farò, come sempre...


La sfilata si svolgerà nella casa del designer in persona, in una delle zone più prestigiose di Milano proprio a due passi da Via della Spiga.

Davanti al portone alto almeno tre metri ci sono dei ragazzi, di bellissima presenza naturalmente, che sbarrano il passo a chi cerca di entrare.
Nella vita di tutti i giorni sono probabilmente costretti a confrontarsi con gli esami universitari, o con i rifiuti delle agenzie per modelli, o con un lavoro assai poco glamorous.
Ma oggi si sentono onnipotenti, e con fermezza impartiscono ordini perentori: “Lei è press? Si? Allora non stia qui in mezzo, per favore, l'ingresso per la stampa è di là” oppure “Lo capisco signora che lei conosce Giorgio, ma per adesso stia buona qui anche lei”.


Fa caldo. Io mi metto da una parte, all'ombra, e mi guardo intorno.

Molti, uomini e donne, indossano abiti dell'ultima collezione del designer di cui stiamo per assistere alla sfilata.
Vabbè, direte voi, che c'è di strano? Ve lo dico io che c'è di strano.
Tra poco più di un'ora quelle stesse persone saranno a un'altra sfilata di un altro stilista, e indosseranno abiti dell'ultima collezione di quello stilista, non più di questo.
Ed ecco che le limousine con i loro interni spaziosi e con i loro vetri fumée ci appaiono in tutta la loro capitale importanza!
Non più soltanto un mero segno di prestigio, ma la soluzione all'esigenza vitale di cambiarsi d'abito durante gli spostamenti da una sfilata all'altra, l'unica risposta alla pressante necessità di APPARIRE come ammiratori e clienti affezionati di tutti gli stilisti.
Come potrebbero infatti quegli stupendi esemplari di cortigiani cambiarsi da capo a piedi nell'abitacolo di una Multipla? I loro corpi morbidi e profumati non sono fatti per i contorcimenti, né per essere palesati attraverso quei vetri così trasparentemente plebei.


Ecco che arriva, in una nuvola di cipria e di profumi dolciastri, la grande guru della moda su carta patinata, una giornalista (la giornalista) onnipotente e onnipresente, una signora che sembra una stagionatissima caricatura della primavera rimasta prodigiosamente immutata per gli ultimi tre lustri.
E non si tratta di miracoli della chirurgia estetica perché le rughe sul suo viso e sul suo corpo ci sono, eccome. Ma io gliele ho contate anno dopo anno e sono sempre le stesse, non una di più né una di meno.
Forse, in qualità di sua fedelissima vestale, ha fatto un patto con la Grande Madre che governa questo mondo fatato: la moda. Un patto che deve essere stato sancito tre lustri fa, appunto. “Io ti dedico tutte le mie energie, ti assicuro pagine e pagine su tutti i settimanali che contano e tu mi mummifichi così come sono adesso, alla mia non più verde età di 72 anni”.
Se i miei conti sono esatti, adesso di anni dovrebbe averne 87, ma non dimostra un'ora di più di quella settantaduenne che è stata.
Quello che cambia sempre invece è il suo abbigliamento, soprattutto i suoi cappelli; oggi ne ha su uno che sembra una terracotta policroma del Della Robbia, un tripudio di frutta, fiori e foglie.


Finalmente si aprono le porte per lasciarci entrare nel tempio dove si svolgerà la cerimonia di iniziazione della nuova linea primavera/estate del grande stilista.
L'atmosfera è assai poco mistica per la verità.
Tutti spingono, tutti sgomitano a destra e a manca, tutti vogliono entrare per primi.
Però lo fanno come se quel caos così poco cool accadesse al di là della loro volontà, come se loro non avessero né il controllo né la responsabilità della scompostezza dei loro corpi; i volti restano impassibili e serafici, come se stessero sorseggiando un tè o chiacchierando con un amico.
E intanto sgomitano. E intanto spingono.
Se è vero che gli ultimi saranno i primi, io sederò al posto d'onore.


Come ho detto, la sfilata si terrà nell'appartamento del designer.
Beh, appartamento. Appartamento si fa per dire, se avesse una torre merlata avrebbe tutte le carte in regola per essere annoverato tra i castelli.
Si articola su tre piani. I piani superiori sono off-limits, ma il piano terra sembra il set de “Il Grande Gatsby” in versione milanese-chic: centinaia di fiori bianchi, candele sparse ovunque, divani bianchi, pareti bianche, pochi mobili ma antichi e preziosi, cristalli e argenti che riflettono la luce dei grandi lampadari di cristallo. Un minimalismo da milioni di euro.
Camerieri che sembrano la dea Kalì volteggiano tra gli invitati con vassoi carichi di flutes di champagne e di finger food di tutti i tipi: il finger food va forte alle sfilate perché permette di apparire eleganti anche mangiando con le mani. Con le dita, dicono loro, ma sempre di mangiare con le mani si tratta. Le crudités vanno per la maggiore, si possono addentare senza sbaffarsi il rossetto e contengono solo frazioni di calorie.

<--- continuerà--->